Storia della famiglia Ardisson
La famiglia Ardissòn è stata certamente una delle famiglie più importanti e intraprendenti della città di Sassari a cavallo tra il XIX secolo ed il XX secolo. La storia della famiglia Ardissòn è ric- ca di ingegno, di sangue, d’amore, di altruismo e d’amicizia. Chi si trova all’oscuro dell’esistenza di questa famiglia al giorno d’oggi potrebbe conoscerla solamente attraverso un’approfondita lettura dei libri di storia cittadina oppure passeggiando per il cimitero monumentale di Sassari, per poi essere incuriositi dalla maestosità della piramide ed essere intimoriti dalla statua del “Grande Mietitore”.
Agostino e Pasqualino giunsero a Sassari da Diano Marina intorno al 1805 con il cognome “Ardissone”.
Agostino nacque a Diano Marina nel 1781 e si sposò con Maria Natale Rossi, parente del garibaldino Andrea Rossi. Dal matrimonio nacquero molti figli, ma quelli giunti in età adulta furono Antonio, Maria, Maddalena e Domenico, conosciuto anche come Domenicone.
Nel 1823 vennero richiesti i servigi di Agostino e di Pasqua- le da Don Carlo Quesada, Marchese di San Sebastiano, per costruire delle vasche utili per il contenimento dell’olio nel suo palazzo in via Mercato, seguendo il progetto iniziale di Giuseppe Cominotti.
Svolto l’incarico per Don Quesada, Agostino si stabilì a Sassari, mentre Pasquale si trasferì a Cuglieri.
Gli Ardissone, esperti sia nel settore oleario che costrutti- vo, decisero così di stabilirsi in due località sarde rinomate per la produzione d’olio.
Agostino ebbe modo di collaborare all’impianto e all’ordina- rio funzionamento di alcuni lavatoi di sanse, come ad esem- pio il lavatoio “Santa Barbara” dell’avv. Giacomo Fresco.
Nel 1832 venne compilato l’estratto di nascita di Domenico, figlio di Francesco, probabilmente un cugino di Agostino. Il cognome si tramutò in Ardissòn, ma nonostante ciò i membri adulti della famiglia continuarono a firmarsi “Ardissone”, come ad esempio in un documento del 1852 in cui viene richiesto per conto di Giovanni Battista Ardissone un pagamento di 3419,50 Lire a carico di Pasquale Tola. Il 21 maggio 1835 ad Agostino venne concesso dal Comune di Sassari un appezzamento di terreno improduttivo per uso industriale al costo di 16 scudi annui. Nel documento si legge: “[…]Agostino Ardissòn di Genova vuole impiantare delle macine per farina, oglio d’olivo, e di lino, comprensi- vamente a fabbrica di sapone[…]”
Il documento si presenta insieme ad una planimetria ac- querellata elaborata dall’architetto civico Giuseppe Pau.
La superficie nella quale Agostino costruì era di 3250 metri quadrati e confinava con altri terreni comunali, con la chiesa di San Biagio ed un terreno appartenente al Duca di Vallom- brosa, Don Vincenzo Manca Amat.
Dal 1835 Agostino impiantò lo stabilimento che fu chiamato “San Paolo” a causa della vicinanza dell’omonima chiesa. L’edificio fu costruito seguendo una forma ottagonale, con una cupola centrale che funzionava da lucernaio e che faceva sì che le acque piovane scendessero al piano inferiore.
L’anno seguente, nel 1836, il Viceré venne informato di alcuni disordini che stavano avvenendo a Sassari contro il lavatoio, vicino allo stabilimento di San Paolo, impiantato da un certo Uxel, forse a causa di immondizie che inquinavano le acque o forse a causa di prestito negato ad una persona influente. Ciò diede inizio ad una serie di aggressioni in cui lo stesso Uxel venne poi ucciso.
Nel 1842 il Cavalier Luigi Serra stampò un libro riguardante l’agricoltura e diede una lode agli Ardissòn per la costruzione ben combinata del lavatoio che, fin dall’inizio, riuscì a dare oltre 3500 barili di olio di sanse. Gli altri lavatoi che vennero citati dal Cavalier Serra sono quello dell’Avv. Fresco, che veniva adoperato dai fratelli e cugini Ardissòn, quello di Molafà ed infine il lavatoio del francese Uxel a San Biagio.
A Sassari c’erano circa 130 frantoi in funzione, tutti funzionanti con metodi arretrati per via dell’isolamento della Sardegna dal resto d’Italia. Agostino propose al Comune un finanziamento per la costruzione di un asse centrale fognario, a patto che il contenuto delle fogne diventasse proprietà della famiglia Ardissòn e dei futuri eredi.
Una volta finita la costruzione, che ancora non era collegata alle abitazioni, le acque di vegetazione dei frantoi
sassaresi, che inizialmente venivano gettate in strada, finivano dritte nelle fogne e confluivano tutte allo stabilimento degli Ardissòn. L’accumulo arrivava da sud, lungo la Carlo Felice, nei pressi di “Molinu a Entu” e da nord nei pressi delle ferrovie, dove oggi è presente l’hotel Turritania. Le acque di vegetazione, una volta arrivate all’interno dello stabilimento venivano divise dai separatori fiorentini che, sfruttando le leggi fisiche, dividevano le acque dall’olio.
Con questo metodo si riusciva ad ottenere gratuitamente un enorme quantità d’olio, che veniva poi travasato per produrre sapone o lampante. Spesso l’olio si imbarca- va per Genova grazie alle navi dell’armatore Tomaso Schiappacasse, marito della figlia di Agostino, Maria Ardisson.
Lo stabilimento ottagonale, invece, funzionava come la- vatoio di sanse e produceva altro olio per uso industriale. Nel locale caldaie veniva prodotta energia sotto forma di vapore bruciando le sanse esauste, chiamate così proprio perché inutilizzabili per altri procedimenti di recupero.
Con questo metodo la famiglia Ardissòn si arricchì no- tevolmente finché i frantoi sassaresi non si aggiornarono ai metodi continentali, provocando un intenso calo di produzione.
Agostino promosse varie iniziative imprenditoriali tra Sassari e Cuglieri. Con il fratello Pasqualino formò nel 1837 una società per lo sfruttamento del frantoio oleario sito nella località Badde ‘e Cherchu. La società proseguì anche dopo la morte di Pasqualino nel 1841,
quando Domenicone venne accolto a Cuglieri per aiutare nella gestione dell’impresa. Nello stesso 1841 divenne l’am- ministratore dei beni su procura della cugina Maddalena Ardissòn che, poco tempo dopo, divenne sua moglie.
L’olio che veniva prodotto a Cuglieri si imbarcava presso l’approdo naturale di S’Archittu per poi essere venduto a Genova.
Agostino creò anche altre iniziative imprenditoriali in società con i genovesi Tomaso Schiappacasse e Giuseppe Brignatelli, entrambi suoi generi. In società con i due ge- novesi prese in gestione dal sacerdote Murru un lavatoio di sanse a Caniga.
Il 25 febbraio 1842 Agostino stipulò un contratto con Don Vincenzo Amat, Duca di Vallombrosa e dell’Asinara, in cui gli veniva venduto il terreno confinante al suo, nei pressi della chiesa di San Paolo.
Nel 1843 Agostino creò una società temporanea con l’im- prenditore Gerolamo Lombardi per la gestione di un negozio situato tra Porta Utzeri e Porta Nuova e per la gestione dei la- vatoi all’interno della città di Bosa, appartenenti alle famiglie Passino e Demuro.
Questa fu l’ultima impresa alla quale Agostino diede vita: morì all’età di 63 anni, il 20 luglio 1844, dopo una breve ma- lattia, lasciando tutto in usufrutto alla moglie e in eredità ai figli. La vedova morì l’anno seguente e, negli anni a venire, lo stabilimento venne amministrato solo da Domenicone, poiché il fratello Antonio e la moglie Maddalena Ottonello morirono il 4 giugno 1856 per mano di una banda criminale.
L’assassino, nascosto sotto il tavolo della cucina, aggredì Antonio Ardissòn e sua moglie accoltellandoli a morte. Maddalena riuscì a sopravvivere per un breve lasso di tempo, nel quale raccontò di un sicario dall’accento cam- pano che accoltellò lei e il marito. Si dice che Maddalena, al momento dell’assassinio, aspettasse un bambino.
Questo fu l’ultimo di una serie di delitti compiuti a Sassari nell’arco di un anno nel quale furono assassinati, per mano della banda criminale, il genovese Nicolò Siri, il carpentiere sassarese Gavino Mura, l’impiegato delle Regie Gabelle Pie- tro Dessì, Salvatore Fadda Seli ed Efisio Sbressa.
Il caso Ardisson
Arrestarono venti persone, tutte accusate di far parte di un’associazione criminale nata a Sassari dopo il 1848 e che durò fino al 1856 circa. Domenicone venne accusato di essere uno dei capi dell’associazione criminale e il mandante
degli omicidi di Nicolò Siri, del carpentiere Gavino Mura e del fratello Antonio, ucciso insieme alla moglie Maddalena Ottonello. Venne inoltre accusato di calunnia insieme a molte altre persone. L’avv. Giuseppe Luigi Delitala e l’avv. Professore Commendatore Pasquale Stanislao Mancini difesero Domenicone durante il processo tenutosi a Cagliari. Il francese Gustave Jourdan discusse l’accaduto nel suo libro “L’ile de Sardaigne” in cui mise a risalto le ingiustizie e l’accanimento contro gli stranieri: “[…] Alcuni anni fa un francese, di cui il nome mi sfugge è stato ucciso per aver voluto costruire a Sassari un
mulino a vento (Jourdan fa riferimento al francese Uxel). […]
Alcuni anni fa, il Sig. Ardissòn, è sfuggito solo per miracolo a numerosi tentativi d’assassinio e vide, in una notte orribile, assassinare davanti ai suoi oc- chi suo fratello con sua moglie e suo figlio. Il suo crimine è stato quello di aver costruito a Sassari un mulino a vapore. […]
Non c’è stato giorno in cui non guardai con i miei occhi ogni tipo di statistica sulla criminalità e continuavo a legger sempre la stessa parola all’infinito: omicidio … omicidio … I nomi degli assassini venivano invece cancellati.
Non ci si ferma mai alla lotta contro la violenza se non a causa della debolezza e se da una parte si compie un delit- to dall’altra parte è sempre presente la vigliaccheria. […]”
Il modo in cui Jourdan descrive l’accanirsi del sistema giuridico e dei sardi nei confronti degli stranieri fa capire anche la gelosia che gli stessi avrebbero potuto provare per una persona come Domenicone Ardissòn.
Fu proprio il racconto di Jourdan che portò Enrico Costa a parlare del famoso delitto Ardissòn, argomento che avrebbe preferito lasciare nel dimenticatoio, ma che volle esporre per controbattere al francese.
Anche Vivanet commenta Jourdan e ci riporta che “il signor Ardissòn, questo preteso martire dell’industria e di un molino a vapore, trascina ora coi suoi rimorsi una catena nei bagni della Liguria, e che venne strappato dalla difficoltà delle prove, e dall’eloquenza d’uno dei più abili avvocati di che si onori l’Italia. […]”
Vivanet riportò nel suo libro gli stessi fatti che raccontò Jourdan commentando, però, con gli stessi pregiudizi che ha poi avuto con Ardissòn e Delessert. Forse l’unico errore che fece Domenicone fu quello di controllare le proprietà del fratello Antonio nello stesso 1856, poco dopo l’omicidio. Probabilmente quel fatto venne interpretato con malizia dal tribunale.
Il caso di Domenicone Ardissòn divenne talmente famoso che fece il giro d’Italia e dell’estero, tant’è che se ne occuparono appunto Jourdan, Vivanet ed il Siotto Pintor.
Il processo durò dal 6 febbraio 1857 al 12 aprile 1860. Nonostante l’assenza di prove, Domenicone fu condannato a 15 anni di lavori forzati presso il carcere di Genova. Dal 1856 in poi gli omicidi diminuirono nettamente e la popolazione si fidò quindi del giudizio dato. Durante la sua permanenza in carcere scrisse più volte alla moglie Maddalena, ma non
ricevette mai alcuna risposta. di queste lettere qualche decennio fa, all’interno di un candelabro.
Ancora oggi il caso di Domenicone Ardissòn viene com- mentato con qualche pregiudizio, ma c’è anche chi dice che si trattò della gelosia dei sassaresi nei confronti della famiglia stessa.
Domenicone era il padrone effettivo di una parte della ditta di famiglia e amministratore della parte della moglie Maddalena.
I cugini di Agostino erano Francesco e Giovanni Battista Ardissone, ma di loro non si sa molto dato che è stato ritrovato solo un documento indicante il lavoro di Gio- vanni Battista compiuto nel 1852 per la ditta di famiglia. Francesco era il padre di Domenico, nato nel 1832, primo a portare il cognome Ardissòn, probabilmente a causa di un errore di scrittura nel suo atto di nascita.
Domenico, a sua volta, si sposò con Giuseppa Luigia Sotgiu e da loro nacque il personaggio più importante di tutto il nucleo familiare: Francesco Ardissòn.